LA STRAGE DI VIA D’AMELIO 30 ANNI FA
Il 19 luglio 1992, alle ore 16:58, la Fiat 126 rubata contenente circa 90 chilogrammi di Semtex- H telecomandati a distanza (probabilmente da dietro un muretto in fondo alla strada o da un condominio in costruzione nelle vicinanze), venne fatta esplodere in via Mariano D’Amelio al civico 21 a Palermo, sotto il palazzo dove all’epoca abitavano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino (rispettivamente madre e sorella del magistrato), presso le quali il giudice quella domenica si era recato in visita; Persero la vita Borsellino e cinque agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. L’unico a sopravvivere fu Antonino Vullo, che durante l’esplosione stava parcheggiando un’auto della scorta.
L’agente sopravvissuto Antonino Vullo descrisse così l’esplosione: «Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto»
Lo scenario descritto da personale della Squadra Mobile giunto sul posto parlò di «decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati». L’esplosione causò inoltre, collateralmente, danni gravissimi agli edifici ed esercizi commerciali della via, danni che ricaddero sugli abitanti. Sul luogo della strage, pochi minuti dopo il fatto, giunse immediatamente il deputato ed ex-giudice Giuseppe Ayala che abitava nelle vicinanze.
Tra il tritolo di Capaci e quello di via D’Amelio ci sono 57 giorni di angoscia. Morto Falcone, sa che tocca a lui. È consapevole che la condanna a morte è già stata emessa. Ma è l’unico che ha le capacità investigative, la libertà di spirito, per continuare il lavoro del collega ucciso.
Non è un caso che il suo nome e volto siano diventati simboli di vittoria. Chi ha deciso la sua morte ha sbagliato tutto.
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